lunedì 22 novembre 2010

Le Monde Diplomatique, Ottobre 2010. Educazione.

Note su un numero speciale.

Il fatto che una delle più prestigiose riviste internazionali di analisi sociologico-politica si soffermi sulla crisi della scuola e della formazione permanente (lifelong e life-wide) con un’ottica comparata è senz’altro un elemento degno di rilievo.
La galassia di Le Monde, d’altra parte, ha una rivista specificamente dedicata (“Le Monde de l’education”) e il quotidiano medesimo dedica una puntuale osservazione alle notizie ed ai reportage sul formativo nei vari scenari internazionali. Le politiche formative sono le prime a patire la scure dei governi in un tempo in cui essi paiono incapaci di comprendere i potenziali e i benefici di un serio investimento culturale proprio per l’uscita sia dalla crisi politica sia dalla crisi economica che attanagliano in egual misura il mondo occidentale.
Le Monde Diplomatique (che in Italia si può leggere grazie al lavoro della redazione del Manifesto) ha dedicato, infatti, un Dossier alle politiche educative all’interno del suo numero di ottobre. Gli interventi sono di pregio e l’intento internazionalista delle carte viene rispettato.

USA. Politiche educative, una sfida per Obama.

Il primo articolo dello speciale è a firma della docente americana Diane Ravitch, già Ministro dell’educazione sia con Bush padre sia con Bill Clinton, una tecnica, insomma. D’altro canto Ravitch, che insegna alla New York’s University, è la madre della legge No Child Left Behind (Neessun ragazzo lasciato indietro) del 2001 che prevede programmi educativi “plasmabili” sulle esigenze di ogni singolo studente e che verrà completata nel 2004 dalla riforma bipartisan della legge IDEA (Individuals with Disabilities Education Act), la quale riprende una concezione di educazione liberale cara al pensiero americano sin dalle dottrine di John Rawls sulla “giustizia sociale” e per cui prestò la sua consulenza (stavolta a Bush junior) l’eminente filosofa Martha Nussbaum. Diane Ravitch sottolinea la rilevanza che ebbe nella sua legge federale del 2001 la possibilità per i ragazzi più disagiati socialmente di poter usufruire di corsi formativi gratuiti e l’importanza di connubiare in maniera più efficiente nei percorsi educativi di base (siamo nell’ambito della cosiddetta Mandatory school, la “formazione obbligatoria”) l’insegnamento delle lettere e quello delle scienze e della matematica. Ravitch si sofferma – e critica il – sul sistema delle Charter School (a metà strada tra le scuole private e quelle pubbliche, in quanto esse ricevono finanziamenti statali anche se fondate da associazioni di genitori non soddisfatte dell’insegnamento pubblico). In particolare la Professoressa Ravitch critica le politiche di Barack Obama tendenti a favorire i finanziamenti pubblici per le Charter school sulla base delle valutazioni degli insegnanti secondo i risultati ottenuti dai loro studenti. Questa critica è ben presente nella letteratura specialistica attuale e Roland Fryer dell’Università di Harvard ha presentato evidenza statistico-economica della necessità di libertà educativa input-based piuttosto che outcome-based. Secondo il Professor Fryer, infatti (Fryer è il più giovane afroamericano ad aver vinto una borsa di studio ad Harvard), agli studenti deve essere assicurata un’educazione adeguata a prescindere dai loro effettivi risultati (record) scolastici.

L’efficacia scolastica sotto una lente.

Il dibattito sull’efficacia scolastica è al primo piano anche in Europa, nel momento in cui lo Stato domanda agli insegnanti di fare di più con meno mezzi ed in cui docenti e discenti affrontano la riduzione del tempo consacrato all’apprendimento. In Francia, la sociologa parigina Sandrine Garcia mette in evidenza come il tempo scolastico dedicato fattivamente all’insegnamento sia passato in un solo anno dalle 936 ore annuali a 864 ore, dopo le riforme messe in campo da Sarkozy e dalle finanziarie del Governo Fillon. Garcia si chiede quali siano oggi le istituzioni a cui si è demandato il compito egualitario e di democratizzazione di cui, storicamente, lo Stato francese aveva incaricato il sistema educativo (storica è, infatti, la missione del primo ministro della Terza Repubblica Jules Ferry per una “scuola gratuita, laica ed obbligatoria”). Infine, Garcia riprende argomentazioni care persino ad Adam Smith quando sancisce che dovrebbe essere il settore pubblico a garantire la libertà sostanziale educativa ed a svincolare il ruolo formativo dai meccanismi della “mano invisibile” del mercato. Si pone, insomma, una questione economica di “internazionalizzazione” pubblica della politica pubblica educativa e delle sue esternalità (casomai negative, certamente non profittevoli nel breve periodo). Garcia lamenta, invece, che le improvvide politiche governative di tagli messe in opera dal Governo francese, hanno trasferito sulle famiglie il peso dell’eventuale fallimento educativo. D’altro canto, anche gli insegnanti sono costretti a far fronte ciascuno di per sé ad una situazione di caos politico con riguardo alle politiche dell’apprendimento. Lo slogan è all’unisono: “Je n’ai jamais vu un tel bazar”!

Prospettive internazionali del riconoscimento delle competenze educative.

Dopo un interessante articolo sulle mancate promesse del governo giapponese capitanato dal democratico Hatoyama Yukio (alla guida di un brevissimo governo del PDJ dal settembre 2009 al giugno 2010), si passa ad un’analisi comparata della situazione europea del settore educativo RPL/RVA (dove RPL sta per Recognition of Prior Learning, ovvero per Riconoscimento del Sapere di Base e RVA per Riconoscimento Validazione Accreditamento dell’apprendimento). L’articolo, a firma di Nico Hirtt dell’Appel pour une école démocratique, si sofferma sull’avvertita necessità di un aumento internazionale delle politiche di formazione professionale in grado di conciliare un apprendimento tecnico con un apprendimento “umanistico” ed ideale-valoriale. Secondo l’autore, le competenze su cui oggi occorre fare perno, a tal proposito, sono la conoscenza delle lingue straniere, il calcolo matematico, una cultura tecnologica, l’acquisizione di competenze relazionali e sociali, senso dell’iniziativa e spirito d’inventiva e flessibilità.

Mattia Baglieri